Recovery e Politica di Coesione: ispirazione o sostituzione per il post 2027?
Anche il Comitato economico e sociale europeo (CESE) dice no all'ipotesi di gestire la nuova Politica di Coesione 2028-2034 secondo il modello PNRR. La risoluzione approvata in plenaria dall'organismo che riunisce datori di lavoro, sindacati e rappresentanti di organizzazioni sociali, professionali, economiche e culturali dell'UE arriva in coincidenza con il meeting di alto livello organizzato a Budapest dalla presidenza ungherese del Consiglio per discutere del futuro della Coesione. A giugno i 27 si sono già espressi a favore del mantenimento dei pilastri della Coesione, ma restano interrogativi su cosa dell'esperienza del PNRR si cercherà di importare per rivitalizzare una politica in crisi di consensi.
Fondi europei post 2027: il Consiglio conferma i pilastri della Politica di Coesione
In linea con la posizione già espressa dalle regioni europee, la risoluzione del CESE difende i caratteri fondamentali della Politica di Coesione, ribadisce la necessità di un commissario dedicato alla Coesione e respinge l'ipotesi di applicare ai fondi strutturali il modello PNRR. Approccio dal basso, governance multilivello e coinvolgimento del partenariato sono i pilastri che devono orientare anche la programmazione post 2027, ha spiegato il presidente del CESE, Oliver Röpke, sottolineando che la Coesione deve rimanere una politica di lungo termine dotata di un budget adeguato e volta a colmare i divari tra le regioni europee e a non lasciare indietro nessuno. Una politica ben distinta dagli strumenti anti-crisi, in particolare dal Recovery and Resilience Facility (RRF). “Il CESE si oppone alla trasformazione della Coesione in un meccanismo simile a quello del Dispositivo di ripresa e resilienza, che manca di coinvolgimento degli stakeholder e gestione condivisa”, ha sottolineato Röpke.
Del futuro della Coesione hanno discusso in questi giorni a Budapest anche i direttori generali responsabili della Politica di Coesione nell'incontro di alto livello organizzato dalla presidenza ungherese del Consiglio. I 27 ne avevano parlato anche nel Consiglio Affari Generali di giugno, approvando conclusioni che ribadiscono i principi fondamentali della Politica di Coesione - gestione condivisa, principio di partenariato e approccio place-based - e sembrano escludere la volontà di passare a una gestione centralizzata sul modello PNRR.
Nel processo di riforma cui la Politica di Coesione andrà incontro, tuttavia, l'ispirazione del modello PNRR giocherà un ruolo rilevante, anche se non è ancora chiaro in che misura e con quale impatto, tanto più che per lo stesso Recovery non si dispone ancora di una valutazione compiuta.
La nuova Politica di Coesione 2028-2034 potrebbe funzionare con un approccio completamente basato sui risultati? Quali sarebbero gli effetti sulla coesione economica, sociale e territoriale di vincolare i fondi europei alle performance di investimento e alle riforme realizzate? C'è il rischio che il modello PNRR sposti tutto il focus sulle aree urbane, sulle industrie colpite dalle decarbonizzazione, sugli investimenti in tecnologie innovative e dirompenti? E questo approccio andrebbe ad aumentare o a ridurre la distanza tra i territori più e meno sviluppati?
Il modello Recovery insidia una Politica di Coesione in cerca di nuova linfa
Nata alla fine degli anni Ottanta nella sua forma strutturata in Programmi (anche se le sue origini risalgono al Trattato di Roma del 1957), al fine di perseguire la coesione territoriale, economica e sociale, la Politica di Coesione riflette un approccio regionalizzato, con un Accordo di partenariato negoziato dagli Stati membri e la Commissione europea per rispondere alle esigenze delle diverse regioni, privilegiando, in termini di sforzo finanziario, soprattutto quelle meno sviluppate e in alcuni casi, come in Italia, assegnando alle regioni stesse la gestione dei fondi europei.
Questo assetto è andato incontro negli ultimi anni a una progressiva messa in discussione sia nel merito che nel metodo - cioè sia relativamente agli obiettivi generali e ai criteri di individuazione delle regioni target dei fondi strutturali, che rispetto alle regole di funzionamento e gestione -, ora alimentata anche dall'esperienza del Recovery and Resilience Facility.
Le principali critiche sul merito riguardano i benefici parziali, se non del tutto deludenti, riscontrati in alcune aree target, come nelle regioni del Sud Italia che si confermano sempre tra le meno sviluppate, ma anche nelle regioni avanzate e in transizione retrocesse di categoria nel settennato 2021-2027 (Marche, Molise, Sardegna e Umbria). A rafforzare queste obiezioni concorre poi la visione secondo cui occorre direzionare maggiori fondi verso i nuovi fabbisogni delle regioni più sviluppate impegnate nella doppia transizione verde e digitale e alle prese con le conseguenze degli impegni di decarbonizzazione. Ci sono poi i rilievi su quanto sia opportuno continuare a destinare circa un terzo del Quadro finanziario pluriennale dell'Unione al tema della coesione, a fronte delle nuove sfide che l'UE ha aggiunto alla sua agenda e della difficoltà nell'assicurare risorse sufficienti al bilancio UE.
Tutte spinte, insomma, che convergono verso il ridimensionamento degli impegni finanziari per la riduzione delle disuguaglianze tra i territori, nonostante queste permangano sia tra gli Stati che all'interno delle stesse regioni europee.
Il Recovery and Resilience Facility si inserisce in questo quadro come esperimento avviato con l'obiettivo immediato di rispondere a un'urgenza, ma con l'ambizione di contribuire anche nel più lungo termine ad una maggiore resilienza dell'Unione, puntando soprattutto sulle transizioni green e digitale e, con REPowerEU, sull'autonomia strategica dell'UE. I tempi rapidi di implementazione hanno spinto a connotarli come strumenti basati su una gestione centralizzata dei fondi europei, non concertata con i territori, cui si aggiunge un approccio basato sulle performance. L'erogazione delle risorse è quindi vincolata alla realizzazione di riforme e investimenti, misurati in relazione a target quantitativi e qualitativi, e non più legata alla rendicontazione puntuale dei costi sostenuti, con l'obiettivo di semplificare le procedure, ma soprattutto di aumentare l'accountability e l'orientamento al risultato delle amministrazioni che gestiscono i fondi.
Il Recovery è ancora in attesa di giudizio
La possibilità di attingere a questo modello per ridare slancio a una Politica di Coesione in crisi di consensi si è imposto come uno dei temi chiave nel dibattito sul futuro dei fondi strutturali post 2027, con posizionamenti che vanno dall'idea di importare alcune caratteristiche del Recovery and Resilience Facility nella Politica di Coesione 2028-2034 fino al completo assorbimento dei fondi strutturali nel modello PNRR. Un modello che viene proposto come alternativa, anche per i meccanismi stringenti di verifica del rispetto di milestone e target, ma su cui è “troppo presto per poter fornire una valutazione d'impatto completa”, come rilevato dall'Ecofin nelle sue conclusioni di aprile sulla valutazione intermedia del Dispositivo per la ripresa e la resilienza presentata dalla Commissione a febbraio.
Questa valutazione di impatto dovrebbe permettere di capire non solo se gli obiettivi posti dai 27 sono stati raggiunti e se il modello centralizzato e performance-based del Recovery funziona meglio in termini di avanzamento della spesa (al momento in Italia secondo i dati dell’Ispettorato generale per il PNRR del MEF siamo a circa 50 miliardi, di cui 30 relativi ai crediti d'imposta automatici e 20 relativi agli investimenti), ma anche quali benefici sono stati prodotti in concreto, perché obiettivi declinati in termini di realizzazioni non sono in sé una garanzia di qualità della spesa, di coerenza degli investimenti con i fabbisogni dei territori e dei settori su cui si va ad intervenire o più in generale di capacità di aggredire strategicamente gli ostacoli a un percorso di crescita sostenibile e resiliente. E' un quadro di cui ancora non disponiamo, così come non c'è ancora piena chiarezza sul tema della trasparenza della spesa e dell'efficacia delle procedure di controllo a tutela degli interessi finanziari dell'Unione dal rischio di frodi e irregolarità.
In che modo i meccanismi del RRF possono entrare nella Politica di Coesione?
Di contro, per la Coesione non mancano analisi e valutazioni sulla cui base avviare il confronto per strutturare un processo di riforma che, senza tradirne i principi chiave, ne affronti i principali problemi in dialogo con l'eredità del Recovery.
Le relazioni della Commissione europea (da ultimo la nona) e il rapporto del gruppo di alto livello sul futuro della Coesione hanno inquadrato successi e limiti delle scorse programmazioni, ben esemplificati dal confronto tra le performance delle regioni del più recente allargamento UE e quelle del Mezzogiorno d'Italia. Problemi noti sono le complessità burocratiche, la debolezza delle amministrazioni chiamate a gestire i fondi, la difficoltà di progettare interventi capaci di produrre risultati duraturi nel tempo, anche una volta cessata l'operatività degli aiuti. E ancora, la mancata addizionalità dei fondi strutturali, che finiscono per sostituire risorse ordinarie sempre più compresse; l'utilizzo ridotto degli strumenti finanziari per moltiplicare l'impatto delle risorse assegnate.
Lo studio “Fixing Cohesion. How to Refocus Regional Policies in the EU” del Jacques Delors Centre porta un interessante contributo sostenendo che spesso i fondi sono destinati ai luoghi sbagliati e alle persone sbagliate, aumentando i redditi medi delle famiglie benestanti in aree non particolarmente povere, perché non vi è una chiara differenziazione tra la spesa che risponde realmente all'esigenza politica di ridurre le disuguaglianze regionali e sociali e gli investimenti finalizzati agli altri obiettivi politici dell'UE. Secondo questa analisi, la riforma della Coesione dovrebbe prestare maggiore attenzione alle aree veramente svantaggiate e definire più precisamente le sfide economiche locali, mentre le risorse ora assegnate alle aree più ricche dovrebbero essere orientate verso uno strumento a livello UE più focalizzato sulle priorità comuni, come gli investimenti strategici a livello industriale e infrastrutturale.
Il report “Absorption rates of Cohesion Policy funds", realizzato su richiesta della commissione REGI del Parlamento europeo, da Andrea Ciffolilli, Marco Pompili, Anna Borowczak e Maja Hranilovic, porta invece a evidenza il tema dell'impatto dei ritardi in avvio di programmazione, determinati dalle sovrapposizioni tra i successivi cicli e dai tempi di adozione di regole UE, accordi di partenariato e programmi, e come questi ritardi tendano ad accumularsi nel tempo. Un problema che la sovrapposizione con il PNRR, almeno in Italia, ha fatto esplodere, generando un “effetto spiazzamento” che, in molti casi, si sta traducendo in una vera e propria paralisi dei programi operativi 2021-2027.
Sull'ipotesi di sviluppare maggiormente il quadro dei risultati nella Politica di Coesione, invece, una prospettiva di estremo realismo è stata proposta dal direttore della Sezione "Investimenti a favore della coesione, della crescita e dell’inclusione" della Corte dei Conti europea, Martin Weber, intervenendo a un dibattito all'ultima EU Regions Week. Anziché pensare di operare in tutti i settori e in tutti gli ambiti della Politica di Coesione secondo il modello RRF, sarebbe opportuno identificare gli ambiti adeguati ai finanziamenti basati sui risultati. In questo modo si sposta il focus sul raggiungere qualcosa, creando un effetto vincolante per le autorità impegnate a raggiungere i risultati previsti, ma senza aumentare eccessivamente le rigidità, quando uno dei grandi problemi della Coesione è proprio come renderla più flessibile.
Il punto, come sottolineato più volte anche dalla commissaria alla Coesione e alle riforme Elisa Ferreira, è capire cosa si possa raccogliere di questa eredità senza abbandonare il cuore della Politica di Coesione. Perché, ha spiegato la commissaria, se si ha un mercato interno, si ha anche una competizione che premia i più forti e c'è bisogno di compensarla con gli sforzi per la riduzione dei divari tra i territori e le persone.
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