Fondi, obiettivi realistici, sinergia con USA: cosa serve per far camminare il Green Deal Industrial Plan
Più che una risposta all'IRA statunitense, il piano europeo è un passaggio necessario per mettere l'industria al centro della transizione verde. Allentare le regole sugli aiuti di Stato non basterà a finanziarlo e potrebbe indebolire il mercato unico, minando - sottolinea il viceministro alle Imprese Valentini in un evento organizzato dal Parlamento UE - il principale elemento competitivo su cui l'UE dovrebbe far leva in questa partita.
Cosa prevede il Green Deal Industrial Plan
Per quanto sia stato presentato sin dal suo lancio come la risposta europea all'Inflaction Reduction Act, l'EU Green Deal Industrial Plan, ossia il piano della UE per decarbonizzare l’industria europea adottato dalla Commissione il 1° febbraio, ha radici ben più profonde e affronta una sfida che Unione europea e USA devono affrontare non in contrapposizione, ma in partnership. Ne sono convinti i rappresentanti delle istituzioni, delle associazioni e dell'accademia intervenuti alla tavola rotonda organizzata dall'Ufficio in Italia del Parlamento europeo con FASI il 25 maggio, per discutere di come mettere a terra il piano e come finanziarlo.
Le problematiche cui risponde il Green Deal Industrial Plan vengono prima della crisi ucraina e dell'IRA, già da qualche anno si parlava di “supply chain rinazionalizzate, di mondi bipolari, di una deglobalizzazione”, un trend che già richiedeva una risposta europea, ha ricordato Armando Melone, consigliere politico presso la Rappresentanza in Italia della Commissione europea. E il piano europeo riflette l'esigenza UE di una strategia industriale per affrontare il Green deal, che passa per obiettivi, ma anche per fondi, quelli di Next Generation EU, del bilancio europeo e della BEI, ha spiegato il direttore del Parlamento europeo in Italia, Carlo Corazza.
Risorse che, tuttavia, sono inadeguate rispetto al fabbisogno finanziario connesso alla transizione energetica. E che non è sufficiente combinare solo con i sussidi nazionali che, grazie all'allentamento delle regole sugli aiuti di Stato nel nuovo Quadro temporaneo di crisi e transizione, i singoli paesi potranno fornire alle imprese. Dovremmo iniziare a ragionare su un nuovo Fondo per la transizione energetica, ha sottolineato Corazza. Altrimenti solo i paesi con margini fiscali più ampi potranno investire, lasciando gli altri indietro.
Non solo aiuti di Stato: fondi europei per la transizione green
Si tratta, in sostanza, della critica mossa dallo stesso Governo italiano alla proposta della Commissione, accolta da Roma con un non paper che mette nero su bianco tutti i rischi - di mancata efficacia dell'azione e di frammentazione del mercato interno - di una risposta all'IRA, e in generale alle esigenze di finanziamento connesse alla transizione green, basata sulle diverse capacità fiscali degli Stati membri. Rischi ribaditi alla tavola rotonda dal viceministro delle Imprese e del Made in Italy Valentino Valentini, perchè come è noto “le tasche sono più profonde in alcuni paesi” e questo può alimentare “la tentazione di fare da soli”.
Al contrario, per Valentini, è proprio all'unità di azione che l'UE dovrebbe puntare, sfruttando il principale elemento competitivo a sua disposizione in questo momento, cioè il mercato unico, per attrarre investimenti in Europa. E a rafforzare il messaggio che non si spezza il mercato e tutti al suo interno possono competere, dovrebbe contribuire un Fondo sovrano europeo, che segnali a imprese e investitori il sostegno alla politica industriale europea e che si accompagni a una roadmap credibile e realistica per tutti.
No al libro dei sogni, che rischia di tradursi in incubo per le imprese
Due priorità - fondi adeguati e obiettivi realistici - su cui hanno messo l'accento anche altri partecipanti alla tavola rotonda. Serve una visione chiara delle risorse finanziarie per il Green deal, con un fondo strategico a sostegno degli investimenti basato su una nuova mutualizzazione del debito europeo, sul modello di NGEU, ha sottolineato Andrea Montanino, chief economist e direttore Strategie settoriali e impatto di Cassa Depositi e Prestiti. E ci vogliono anche valutazioni d'impatto per ciascuna proposta, per non finire col “darci target troppo ambiziosi e tempi troppo stretti”.
Anche perchè alcune proposte, secondo il direttore dell'area Politiche per l’Ambiente, l’Energia e la Mobilità di Confindustria Marco Ravazzolo, mettono a rischio proprio la tenuta delle imprese manifatturiere decisive per la competitività dell'industria europea e oggi in prima linea nell'economia circolare. Anche Usa e Cina stanno lavorando alla transizione: l'IRA mette sul piatto 391 miliardi per le tecnologie chiave per cavalcare la green transition, la Cina 500 miliardi. La differenza, ha sottolineato Ravazzolo, sta nel fatto che Usa e Cina “non hanno fissato obiettivi stringenti, non hanno messo in pista politiche ambientali problematiche”, mentre noi stiamo adottando un approccio inverso, in cui manca una politica industriale europea.
Il Green Deal Industrial Plan è quindi l'occasione per cambiare rotta. “Negli ultimi dieci anni non un pacchetto che avesse impatto sull'industria - eccetto il pacchetto Reach sulla chimica - è passato per il Consiglio Competitività, si può dire che la politica industriale europea l'hanno fatta la Dg Clima, la Dg Energy”, ha esordito il direttore generale di Assonime, Stefano Firpo. “L'elemento di rottura dell'IRA è che i nostri cugini americani la transizione verde vogliono farla con l'industria, un cambiamento paradigmatico della politica industriale e ambientale”, che secondo Firpo dovrebbe preludere al mettere la produzione e le fabbriche al centro del progetto europeo per la transizione verde.
Quali strumenti finanziari? Per fare cosa?
Le stime sul fabbisogno finanziario di questo progetto sono varie. Secondo Carlo Carraro, rettore emerito e professore di Economia ambientale all'Università Ca’ Foscari di Venezia, è corretta la valutazione della Commissione di 250 miliardi l'anno per la green transition che, considerando quanto già fatto, richiederebbe un fabbisogno addizionale di circa 100 miliardi l'anno, di cui almeno la metà di quota pubblica. Risorse per finanziare investimenti in innovazione e nuove tecnologie, ma anche - ha sottolineato Carraro - nelle competenze, cruciali per aumentare la competitività strutturale dell'Europa, coinvolgendo sia i lavoratori delle imprese tradizionali in fase di riconversione che quello delle aziende innovative in rapida espansione. Formazione che, ha sottolineato poi Andrea Montanino di CDP, deve riguardare non solo le alte qualifiche, ma tutta la manodopera coinvolta nel processo di transizione green.
I fondi pubblici da soli non basteranno. Anche perchè programmi come il FEIS del Piano Juncker e InvestEU, che pure vedono l'Italia sempre in prima fila, hanno un processo di attuazione molto lento. Più promettenti, secondo Firpo, sono strumenti come gli IPCEI, gli Importanti Progetti di Comune Interesse Europeo, che dovrebbero però sostenere oltre all'innovazione anche la capacità produttiva e combinare alle risorse nazionali i fondi europei, con la Commissione a tenere le redini.
C'è poi un ruolo importante da giocare per il settore finanziario, per il mercato dei capitali e naturalmente per il settore bancario, ha ricordato il direttore generale di ABI, Giovanni Sabatini. Banche che però, ha sottolineato, risentono di un quadro di policy e regolamentare ancora frammentato e mancano di incentivi che, anziché limitarsi a penalizzare la non perfetta corrispondenza ai requisiti della tassonomia per la finanza sostenibile, vadano a incoraggiare la concessione di finanziamenti alle imprese che sono impegnate nella transizione per arrivare a un modello più sostenibile.
Il tutto - è la posizione unanime - va realizzato in partnership con gli USA. “Gli spazi di mercato collegati alla transizione energetica sono ampi - ha sottolineato Firpo -. C'è spazio per le produzioni statunitensi come per quelle europee”. E “in un contesto geopolitico che impone di rafforzare il blocco transatlantico”, ha aggiunto Montanino, stupisce che non si parli più di “un Free trade agreement tra USA e UE”.
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