Social housing: una soluzione al disagio abitativo
Quale ruolo per i fondi immobiliari, fondi pensione e gli investitori istituzionali?
Il convegno sul Social housing organizzato dal Ministero delle Infrastrutture presso il Tempio di Adriano, a Roma, ha provato ad aprire il dibattito su un nuovo modello di intervento per superare il problema del disagio abitativo. All'appuntamento mancavano, però, gli investitori, dai fondi immobiliari a quelli pensione, indispensabili per lo sviluppo del settore.
Un blasonatissimo parterre, dal viceministro alle Infrastrutture Riccardo Nencini ai presidenti e vicepresidenti dell’ANCE, di Federcasa, dell’ANCI, delle cooperative, ma niente di nuovo sul fronte occidentale. Dei veri players dei prossimi 20 o 30 anni del mondo dell’edilizia - i fondi immobiliari, i fondi pensione e gli investitori istituzionali - al convegno organizzato dal MIT non c’era traccia. Non solo erano del tutto assenti, ma nessuno dei relatori ha fatto accenno a loro e al loro ruolo. Eppure, il futuro dell’edilizia, e quindi alche di quella sociale, è nelle loro mani.
L'episodio è il sintomo di una certa miopia nel settore dell’edilizia in Italia, che vede cioè solo il risultato ravvicinato e non quello a medio-lungo termine, privilegiando l’aspetto speculativo rispetto a quello della redditività.
Il tema del Social housing rischia di alimentare questa tendenza, con la proliferazione di dibattiti in materia e di organismi istituzionali che vorrebbero assumere il bastone del comando per guidare grandi strategie di sviluppo. La cruda realtà è molto semplice, bisognerebbe avere l’onestà intellettuale da parte delle istituzioni di ammetterlo e di rimboccarsi le maniche per lavorare a soluzioni veramente efficaci.
Primo, dalla definitiva e sciagurata chiusura del prelievo del Fondo GESCAL nel 1992 (0,35% di prelievo automatico sui redditi dei lavoratori pubblici e privati e lo 0,70% sui ricavi dei datori di lavoro, praticamente inavvertibile da parte di entrambe le categorie), il capitolo Social housing, nonostante le altrettanto sciagurate gestioni del Fondo degli ultimi 20 anni della sua vita, iniziatasi nel 1963, poteva dirsi concluso in Italia e difficilmente riapribile.
Secondo, l’insensata diaspora delle competenze sull’edilizia, polverizzata tra le Regioni e sottratta allo Stato Centrale, ha non solo azzerato un'intera categoria di alte professionalità di funzionari pubblici, costruita in decenni di tradizione, ma ha reso praticamente impossibile orientarsi tra le norme e i vincoli emanati da ogni singola Regione, senza che a ciò facesse riscontro, peraltro, un’adeguata dotazione finanziaria.
Terzo, negli anni ’60, ’70 e ’80, il Social housing era al 10% circa composto dalla cosiddetta Edilizia sovvenzionata, ovvero quella edilizia, a totale carico dello Stato, destinata alle fasce sociali più disagiate e gestita dai vecchi IACP, che funzionarono finchè i partiti politici non li cannibalizzarono.
Il 90% era invece costituito dalla Edilizia convenzionata, ovvero da quella edilizia destinata alle fasce sociali medio-basse, dove l’intervento finanziario non era costituito da interventi in conto capitale, ma in conto interessi, cioè con l’abbattimento dei tassi bancari. D’altra parte, in quegli anni l’inflazione era regolarmente a 2 cifre e i tassi dei mutui difficilmente scendevano sotto la soglia del 15%, per cui ottenere un mutuo con un tasso al 4,5 o 5,0% era un gran risultato.
Insomma, se è vero che il sistema aveva generato storture, corruzione e malagestione, il suo azzeramento è sembrato l'aver buttato via il bambino con l’acqua sporca. Lo dimostra anche l’accumularsi, da venti anni a questa parte, di convegni, libri, statistiche, creazione di nuove strutture pubbliche, affidate alla finanza più che a competenze urbanistiche e interdisciplinari, e annunci del governo di turno sulla panacea definitiva, a tutt’oggi senza riscontri.
D'altra parte, partendo da un'analisi delle nuove esigenze, dell’emergere di una domanda completamente diversa da quella solo di 20 anni fa, e dall'elaborazione di nuove ipotesi urbanistiche, tipologiche, ambientali e tecnologiche, per fronteggiare il diverso scenario, sarebbe possibile intervenire in modo efficace.
Un esempio lo fornisce quanto accaduto nei paesi anglosassoni: quando si accorsero che il modello delle New Towns era non solo fallito, ma aveva generato pericolosi focolai di degrado e di tensioni sociali, non ci pensarono due volte a raderle tutte al suolo e a creare nuovi modelli. In Italia, creando adeguati meccanismi di compensazione temporanea, i cosiddetti 'alloggi parcheggio', sarebbe possibile avviare un lavoro enorme in tal senso, che avrebbe ricadute imprenditoriali e occupazionali straordinarie, con benefici per le città e l'intero territorio.
Purtroppo nel nostro Paese prevale il paradigma gattopardesco: cambiare tutto per non cambiare nulla. Così si continueranno a fare dibattiti sulla “rigenerazione urbana” e sul “Social housing”, senza che ad essi faccia riscontro un solo mattone o un solo metro quadrato di verde o una sola scuola in grado di rilanciare una vera riqualificazione del territorio e del tema dell’abitare e non singoli episodi additati come pratiche virtuose, ma destinati alla totale sterilità.
Photo credit: Alexandre Prévot / Foter / CC BY-NC-SA
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