Citta' e finanza di progetto: conoscenza processo decisionale UE non puo' aspettare
All'apertura del dibattito sul Quadro finanziario pluriennale post 2020, l'UE rilancia da più parti la necessità di coinvolgere le città nei processi decisionali.
> State of the Union – Bilancio UE, quali scenari per il QFP post 2020
> Partenariati Pubblico Privato-PPP - opportunita' da fondi Ue 2014-2020
In uno scenario di crisi economica e drastica riduzione degli investimenti, che vede in particolare le città italiane in affanno, viene da chiedersi se e quanto conti comprendere il processo decisionale europeo, seguendo ad esempio il lavoro operato dalla BEI per gli investimenti in ambiti urbano o il Piano Juncker.
La risposta è affermativa, ma ci sono moltissime barriere di tipo culturale che vedono la conoscenza del processo decisionale europeo ancora largamente demandata a pochi esperti a livello ministeriale o regionale, nonostante l'UE stia tentando da tempo di assumere “dal basso”, e dalle città stesse, conoscenze, esperienze e soluzioni ai problemi di sviluppo territoriale.
Allo stesso tempo, è ormai chiaro da tempo a livello dei comuni che la finanza di progetto, nuovi PPP e strumenti finanziari innovativi, sono elementi che nascono in sede europea e che avranno sempre maggior peso in un periodo di crisi economica prolungata, tagli e restrizioni di bilancio, riduzione dei trasferimenti statali e delle risorse pubbliche per investimenti. Ma vediamo perché.
La crescente importanza delle città per l’UE
Secondo diversi rapporti dell’UE, il 72% della popolazione europea si concentra nelle città e negli ambiti urbani assimilati, con un trend che vede soprattutto la crescita demografica intensificarsi nelle città metropolitane, al centro, quest’ultime, di nuovi city deals e quindi con un rinnovato ruolo nella crescita nazionale e regionale.
Le città sono quindi luoghi in cui la complessità dei problemi si amplifica, ma allo stesso tempo, secondo la stessa UE, sono anche spazi da cui possono derivare soluzioni concrete e più appropriate a vantaggio della qualità della vita dei cittadini. Basti solo pensare alle problematiche poste dai flussi migratori e alla pressione esercitata sui servizi (abitazione, istruzione, ecc) che le città in primis devono gestire in un quadro in cui la povertà e le istanze dei nuovi poveri non trovano risposte neppure per i cittadini europei.
In questo trend, le piccole e medie città o i territori decentrati e rurali arretrano sensibilmente con evidenti segni di spopolamento, specie del segmento giovanile più istruito. Noto anche come brain drain (sottrazione di cervelli) il fenomeno investe, secondo ultimi dati nazionali, anche ed in parte il Nord Italia, a causa in primis del perdurare della crisi economica che ha investito il continente europeo dal 2008 e che vede in Italia ancora deboli segnali di ripresa.
Tra crisi e debito pubblico: la riduzione delle risorse per gli investimenti nelle città
Dall'analisi delle fonti europee emerge che la crisi ha avuto e presenta tutt'ora due elementi interconnessi di estrema criticità:
da un lato, la bassa capacità del continente europeo di attrarre capitali ed investimenti, che si sostanzia in una crollo degli stessi di 475 miliardi di euro nel periodo 2007-2012, ma anche e soprattutto, nella perdita di PMI, vera e propria spina dorsale dell'economia europea;
dall'altro, la costante ed inesorabile riduzione negli anni delle risorse pubbliche per gli investimenti, sia al livello dei singoli bilanci degli Stati membri che del Bilancio dell’Unione, dove quest’ultimi attualmente ammontano a soltanto il 2%. Ovviamente il Bilancio dell'UE è costruito in maniera largamente intergovernativa e resta 40 volte più basso in termini di capacità di spesa rispetto ai singoli bilanci degli Stati membri i quali, a livello europeo, tendono invece ad ottenere, ciascuno a discapito degli altri, il massimo rientro delle risorse versate a Bruxelles in una dinamica oggi negativamente indicata quale logica del giusto ritorno (dal francese Juste retour, dove però giusto ha perso la connotazione positiva).
Detto ciò, l'Italia, a livello europeo, è il paese con un più alto debito pubblico e con un numero elevato di comuni che tradizionalmente risultano “proprietari” di asset urbani e patrimoni immobiliari, la cui gestione tuttavia non è sempre efficiente. Quand'anche affidata a soggetti terzi, tale gestione appare spesso in perdita o dai risultati discutibili, specie laddove negli anni è stata affidata a ristretti gruppi di interessi, con continue proroghe o originata da discutibili procedure di evidenza pubblica nell'individuazione del gestore esterno.
La crisi economica in Italia vede oggi il concorso di tutti i livelli amministrativi nella riduzione del debito pubblico. Allo stesso tempo, crisi e debito eccessivo hanno scoperchiato il Vaso di Pandora mettendo in luce quanto molti bilanci degli enti locali, fatte le dovute eccezioni, non fossero veritieri ma celassero, citando solo alcune criticità, indebitamenti eccessivi ed incontrollati dovuti ad esempio a investimenti in derivati, quote in svariate società/partecipate in perdita. Situazione questa che vede al centro il peggior localismo o quello che Fabrizio Barca, padre dell'attuale riforma delle politiche regionali europee, ha chiamato "il sottosviluppo delle classi dirigenti locali".
Al di là delle distorsioni di una cattiva politica, tutti questi aspetti e la riduzione delle risorse pubbliche per gli investimenti hanno visto e vedono moltissimi enti locali italiani in sofferenza, anche quelli in cui l'amministrazione si è mostrata virtuosa ed oculata.
Modelli di compartecipazione dei privati nell’investimento pubblico: il ruolo dell’UE
Non sorprende pertanto nel tempo il ricorso alla sperimentazione, negli investimenti pubblici, di modelli e forme di finanziamento grant (fondo perduto) e non grant, ma anche e soprattutto l'apertura al concorso di capitali privati intervenuto tra l’altro quale effetto della sussidiarietà introdotta con il Trattato di Maastricht.
Ora quando si parla di compartecipazione privata di capitale all’interno degli investimenti pubblici inizia a diventare più che mai importante orientarsi nel processo decisionale europeo, seguendo la normativa legata al ricorso agli strumenti finanziari, alle regole e sinergie che sottendono l’utilizzo di fondi di differente provenienza (nazionale, locale, europea, privata), ma anche e soprattutto di modalità di cooperazione fra pubblico e privato da cui derivano però differenti complessità giuridiche e profili di rischio.
Si tratta quindi di aspetti che hanno regole complesse e interconnesse con il diritto europeo e non solo, ma che sovente sono gestiti all’interno degli enti pubblici da settori distinti e compartimentalizzati che perdono di vista la matrice europea, la quale, se monitorata, permetterebbe di anticipare i processi organizzativi e di conseguire maggiore efficacia nell’azione degli enti locali.
Ignorare quindi meccanismi e applicazioni che originano dal processo europeo appare oggi un grave deficit che non giova agli enti locali in un sistema di competizione territoriale.
Il Partenariato Pubblico Privato
Tra i modelli di interesse vi sono le Partnership Pubblico Privato, in particolare quelle di tipo istituzionalizzato, che si distinguono dalla contrattualistica tradizionale dal momento che la cooperazione tra le parti pubbliche e private avviene mediante entità distinta dotata di personalità giuridica (FIDONE,RAGANELLI, Il partenariato pubblico privato e la finanza di progetto).
Di derivazione anglosassone e, per la natura marcatamente privatistica delle trasformazioni urbane, ampiamente e con le dovute differenze utilizzati in paesi come il Giappone, i PPP sono stati ricompresi dopo un lungo percorso nella regolamentazione europea. Questo perché contribuiscono a ridurre la compartecipazione di risorse da parte di enti pubblici sempre più sentita ovunque in Europa, a vantaggio degli obiettivi di finanza pubblica e pareggio di bilancio a cui, nel caso italiano, sono chiamati oggi a concorrere anche i piccoli comuni.
La recente trasposizione della direttiva europea sugli appalti pubblici nella normativa italiana ed in particolare l'introduzione appunto di PPP ha finalmente portato chiarezza tra i diversi istituti di cooperazione tra soggetti pubblici e privati già comunque presenti in diverse e più rigide forme nell’ordinamento giuridico italiano. Nel caso del PPP, “Tale cooperazione non si limita, come negli appalti, alla mera attività di progettazione e costruzione dell’opera pubblica o esecuzione del servizio, ma coinvolge il privato, altresì, in tutte le fasi dell’operazione, dalla proposizione e progettazione dell’intervento, al finanziamento e alla gestione economica” (V. Bonfanti , Il PPP alla luce del nuovo codice degli appalti, Amministrazioni in cammino 2016).
Si tratta quindi una formula contrattuale aperta (anche definita atipica) non esente da difficoltà in termini di valutazione e attribuzione dei rischi e dei profitti tra le parti, nonché con riferimento alle necessarie procedure di evidenza pubblica da parte dell’amministrazione proponente. Proprio perché si tratta di modalità aperte, il Codice dei Contratti (D.Lgs n. 50/2016) non elenca precisamente le tipologie di PPP. Inoltre la normativa incentiva anche il ricorso agli strumenti finanziari ovvero forme non grant di cui si farà cenno nella sezione che segue.
Per quanto riguarda l’Italia, a nostro vantaggio va ricordato che a differenza di molti contesti urbani europei con lo status di città, i comuni italiani sono forse quelli a cui è demandata la gestione amministrativa in un quadro di sussidiarietà intervento proprio in applicazione del Trattato di Maastricht che li indica sempre più protagonisti e diretti fornitori di servizi ai cittadini.
In questi scenario i comuni italiani hanno, in teoria, un indubbio vantaggio rispetto agli omologhi europei nella possibilità di promuovere e gestire, ovviamente conformemente alla normativa, i PPP, mentre tale prerogativa non è sempre possibile in alcuni stati dell’Est europeo gestiti direttamente dalle amministrazioni centrali.
> Partenariato Pubblico Privato – istruzioni per l'uso
Le forme di supporto non grant: gli strumenti finanziari dell’UE
La capacità di attrarre capitali privati si ritrova in primis nelle politiche di coesione dell’UE, mediante gli strumenti finanziari innovativi, già strumenti di ingegneria finanziaria nelle trascorse programmazioni europee, quali forme di supporto dell’UE alternative alla logica grant. Gli strumenti finanziari innovativi rappresentano i presupposti di base della buona finanza di progetto a cui le amministrazioni dovrebbero dedicare più attenzione nel campo della formazione del personale.
Caratteristica degli strumenti finanziari innovativi è la capacità di sostenere progetti in grado di attrarre capitali privati ed avere dei ritorni economici, andando oltre l’investimento iniziale ed ottenendo quindi complessivamente dei ritorni (effetto leva) tali da essere reimpiegati per altri investimenti (logica rotativa).
A livello europeo, in genere e come ben espresso nella Risoluzione del Parlamento europeo del sugli strumenti finanziari innovativi nel contesto del quadro finanziario pluriennale 2014-2020, si fa riferimento a investimenti di natura sub-ottimale che presentano una potenzialità di successo, ma che comportano un certo grado di rischio non trovando accesso al credito da parte dell’attuale mercato. A questi, infatti, va destinato l’intervento degli strumenti finanziari che non si traducono in finanziamenti a fondo perduto ma che a seconda della tipologia di investimento, dei rischi e delle potenzialità di profitti utilizzano garanzie, prestiti, equity e venture capital.
Quanto evidenziato non fa solo riferimento ai fondi a gestione decentrata (fondi strutturali e di investimento a gestione condivisa tra la Ue e gli Stati Membri) ma anche a risorse veicolata attraverso molte iniziative dirette (COSME, Creative Europe etc) oppure utilizzate nell’ambito delle azioni esterne all’UE.
L’UE nella programmazione 2014-2020 ne ha aumentato le risorse semplificando la galassia di strumenti finanziari, quindi lavorando oggi alla costruzione di strumenti off the shelf (standardizzati).
Nell'ambito dei fondi strutturali e d'investimento di interesse strettissimo per gli enti locali, che sono assieme alle imprese principali tra i beneficiari di queste risorse, la maggior parte del lavoro di coordinamento sugli strumenti inseriti dalle autorità di gestione nei Piani Operativi avviene avviene attraverso la piattaforma europea fi.compass, cui si rimanda per ambiti di applicazioni e modelli.
> Fondi europei - moltiplicare le risorse con gli Strumenti finanziari
Il ruolo dell’UE nei modelli di finanza innovativa: il Piano Juncker
Sebbene appaia distante ed astratta, un’altra questione investe un punto fondamentale la cui conoscenza appare, per lo meno tra gli operatori all'interno degli enti locali, di particolare importanza: comprendere le opportunità più ampie della UE in ambito urbano e nella promozione di interventi sostenibili, tra cui quelle offerte dalla BEI o dal Piano per gli Investimenti Strategici, meglio noto come Piano Juncker. In questo articolo si farà soltanto cenno al Piano Juncker, che comunque vede la BEI tra i principali attori istituzionali, in ambiti di special activities, cioè attività che vanno oltre la soglia di rischio che solitamente la Banca assume per gli interventi tradizionalmente sostenuti.
Il Piano per gli Investimenti strategici è una iniziativa politica voluta fortemente dall'attuale Presidente Jean Claude Juncker all'indomani dell'insediamento. IL Piano, al di fuori della governance del bilancio dell'Ue a fronte di risorse europee rese esclusivamente sotto forma di garanzia, ha individuato una serie di progetti strategici di natura infrastrutturale, ma anche di impresa, in grado di stimolare l'economia reale e mobilitare capitali privati.
Si tratta di progetti di grande dimensioni finanziati con la compartecipazione di risorse degli Stati membri, in italia con l'intervento di Cassa Depositi e Prestiti.
Il piano Juncker ha due finestre: una per le imprese, in larga misura gestito tramite intermediari finanziari nazionali, e una per investimenti strategici, che comprende anche quelli in ambito urbano.
Qui conviene subito chiarire un equivoco: il Piano Juncker, come le opportunità BEI in ambito urbano, non sono alla portata di tutte le città come spesso erroneamente diffuso da una informazione poco attenta e sovente superficiale.
Le città e la conoscenza del Processo decisionale UE per lo sviluppo urbano: una strada in salita
Oggi la valutazione sulla effettiva praticabilità dell'attivazione delle politiche e delle opportunità offerte dall’UE per lo sviluppo urbano è diventata una priorità non più trascurabile. Tale valutazione può infatti condurre ad escludere quelle opportunità, come nel caso del Piano Juncker, tecnicamente e finanziariamente non alla portata delle piccole realtà.
Qualunque possa risultare la valutazione finale sulla praticabilità di questa o quella politica, o strumento di finanziamento dell’UE, oggi è diventato improrogabile per gli enti pubblici, ma per le città in particolare, dotarsi di personale interno che sappia in primo luogo seguire questioni sin dalla loro formulazione a livello europeo in un quadro sempre più dinamico e mutevole causato dal perdurare della crisi economica. Può trattarsi di aspetti di natura tecnica (progetti da costruire), giuridico-amministrativi di rilevanza europea (si pensi soltanto alla normativa sugli aiuti di stato) o che richiedono specifiche conoscenze finanziarie e dei mercati.
Sono questioni sulle quali spesso gli stessi amministratori locali preferiscono affidarsi alla linea di partito o meglio a “conoscenze” dirette presenti negli esecutivi regionali o dei ministeri, ma si tratta di un giro di intermediazioni spesso poco efficace, se non fuorviante, perché in primis il politico locale conosce poco di ciò che accade a Bruxelles e spesso, con le dovute eccezioni, non si contorna neppure di personale preparato.
A ciò va aggiunto un fenomeno crescente per cui gli stessi Uffici di comunicazione istituzionale interna agli enti contribuiscono alla confusione, ad esempio nel non saper distinguere tra una fonte o politica europea diretta o decentrata, facendo quindi passare per risultato europeo una negoziazione diretta con le istituzioni regionali, come nel caso sovente dei Fondi strutturali ed in particolare l'Art 7 POR FESR (fondi per l'agenda urbana).
Tutte queste dinamiche oggi connotano molte realtà amministrative locali in un quadro nel quale al personale tecnico è demandato il maggior peso nelle procedure amministrative, a causa anche della separazione tra parte politica e parte tecnica intervenuta negli anno Novanta del secolo scorso.
A questo punto va allora posta la seguente domanda: sono i comuni, specie quelli medio piccoli a corto di finanziamenti o vicino a procedure di pre-dissesto, in grado di seguire queste questioni che oramai rappresentano il futuro in un contesto di concorrenza territoriale? Può un paese permettersi una classe manageriale e politica non in grado ancora di orientarsi nel processo decisionale europeo da cui deriva oramai, come ipotizzava già oltre 25 anni fa Jacques Delors, gran parte della normativa europea che ha effetto diretto sulla vita dei cittadini europei?
Queste domande dovrebbero trovare risposta innanzitutto attraverso la formazione costante del personale pubblico locale facilitando inoltre le esperienze come esperti nazionali distaccati presso le istituzioni europee, oggi fortemente osteggiate dalle stesse amministrazioni locali. Questo non accade in altri Stati membri, specie del Nord Europa, dove partecipare all'Unione significa viverne e coglierne a pieno le opportunità, sostenendo in primis questo processo di acquisizione, formazione e partecipazione dal basso da e verso l’Europa.
La formazione dovrebbe riguardare sia il personale tecnico sia gli amministratori, in modo che siano poi in grado di intercettare le opportunità europee all’origine del processo, contribuendo quindi al dibattito ed alla applicazione delle stesse a livello nazionale in un sistema di cooperazione più alla pari e meno sbilanciato verso il livello nazionale come purtroppo avviene oggi.
E’ importante ricordare che anche in Italia questo processo non può che rafforzarsi dal basso, specie in un quadro di conclamata autonomia locale che, a seguito delle modifiche costituzionali del Titolo V, probabilmente ha finito per differenziare le governance locali e rendere anche la cooperazione tra i diversi livelli di uno stesso territorio tortuosa e complessa.
* Paola Amato, architetto, esperto in Lobby e processo decisionale in Italia ed Europa
** Pietro Elisei, Esperto internazionale in politiche urbane e pianificazione strategica
Photo credit: Elliott Brown
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