Politica Coesione: Vescina, come spendere meglio i fondi europei
Il tema delle modalità di gestione dei fondi europei è al centro del dibattito sulla Politica di Coesione post 2020. Ne abbiamo parlato con Salvatore Vescina, esperto di politiche pubbliche per la finanza d’impresa.
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Dalla standardizzazione delle procedure di gestione dei fondi europei alle criticità che rallentano l'utilizzo degli strumenti finanziari, fino al ruolo dei confidi a fronte dell'ascesa del fintech. Sono alcune delle questioni che abbiamo affrontato con Salvatore Vescina, senior Advisor presso l’Agenzia per la Coesione Territoriale, membro del Consiglio di gestione del Fondo di garanzia per le PMI, nonché del board del costituendo Organismo per la tenuta dell’elenco dei confidi ai sensi dell’articolo 112 del TUB. Le opinioni qui espresse sono attribuibili esclusivamente all’intervistato e, neppure indirettamente, ad alcuna istituzione.
La centralizzazione delle procedure di gestione dei fondi europei, pur mantenendo in capo alle Regioni le decisioni circa le priorità degli interventi e i relativi stanziamenti, rappresenta una strada per aumentare l'efficacia della spesa?
Quando ci si riferisce a politiche regionali occorre rispettare i perimetri di competenza enunciati nel titolo V della Costituzione. Ciò vuol dire che responsabili della programmazione e attuazione dei Programmi Operativi Regionali cofinanziati dai fondi strutturali sono le singole regioni.
Allo stesso tempo, è ovvio che quando gli intermediari finanziari attivi su scala sovraregionale (pensiamo a larga parte del sistema bancario ma anche ai principali confidi) devono confrontarsi con una molteplicità di procedure diverse (di accesso, gestione e rendicontazione) che servono, più o meno, a fare le stesse cose (prestiti a provvista congiunta, garanzie, ecc.), allora si moltiplicano dei costi che, con buona probabilità, saranno “scaricati” sui destinatari finali o che comunque assorbiranno risorse pubbliche.
Centralizzare con atto di imperio non è possibile (e nemmeno desiderabile), ma ci sono tecniche che consentono a più amministrazioni di utilizzare regole di procedura uniformi, salvo “personalizzare” sia le caratteristiche del target dell’intervento, sia le intensità di aiuto. E’ quanto si è fatto su scala importante nella programmazione 2007-2013 con le sezioni speciali del Fondo di Garanzia per le PMI a titolarità del Ministero dello Sviluppo Economico, che è stato il veicolo per l’utilizzo di oltre il 50% delle risorse stanziate per meccanismi di garanzia nei Programmi Operativi italiani. Si tratta di una lezione appresa, tant’è che anche in questo periodo di programmazione si sta facendo qualcosa di analogo, in versione potenziata.
A suo avviso, quali sono gli strumenti su cui è opportuno concentrare maggiormente le risorse: microcredito, prestiti, garanzie, venture capital, altro?
Questa domanda mi offre l’occasione di precisare la ragione per la quale centralizzare le politiche regionali sarebbe inappropriato. L’Italia è un Paese con rilevanti differenze a livello regionale: nella società, nell’economia e, quindi, nella finanza. Per questa ragione la risposta alla domanda può essere differente al mutare della latitudine.
Vi è comunque evidenza, seppure indiretta, che i fenomeni di razionamento del credito sono più diffusi nel segmento delle micro e piccole imprese, il che vale anche per quelle più solide. Su questo argomento suggerisco sempre la lettura di un paper, pubblicato nel 2017, sul sito web Banca d’Italia: Fragilità finanziaria delle imprese e allocazione del credito.
A suo parere i confidi avranno un ruolo nel futuro alla luce dello sviluppo del fintech?
Il razionamento del credito alle micro e piccole imprese è dovuto al fatto che tra queste ce ne sono di meritevoli ma opache. C’è una asimmetria informativa che, salvo eccezioni (pensiamo a chi vende su Amazon e, all’occorrenza, è finanziato da questa società che ne conosce l’attività commerciale in real time) i big data non riusciranno facilmente a colmare: ricordiamoci che stiamo parlando di imprese che spesso non hanno nemmeno l’obbligo di depositare i bilanci.
Secondo me i confidi potrebbero fare un grande salto in avanti dotandosi di uno standard per codificare il loro patrimonio informativo, il che richiede tecnologie dei primi anni 2000.
Mi spiego meglio. I confidi rischiano, loro malgrado, di ritrovarsi monopolisti del relationship lending, perché le banche chiudono filiali e riducono il personale via via che, anche per ridurre i costi operativi, accrescono la rilevanza di algoritmi e database. Resta vero che il relationship lending ha i suoi costi ma funziona, come confermano anche recenti analisi pubblicate da Banca d’Italia.
Lo stesso si evince dal database del Fondo di Garanzia per le PMI, nel quale riscontriamo che le operazioni fino a 150 mila euro istruite dai confidi hanno un tasso di ingresso in insolvenza pari a circa la metà di quelle, della stessa classe dimensionale, valutate dalle sole banche.
Il limite attuale del patrimonio informativo dei confidi è nel fatto che questo non ha significato univoco e non è fruibile in digitale. Quindi non può essere valorizzato da banche, ECAI ed altri, tramite i sistemi informativi che sono al centro del loro business model. La buona notizia è che il Ministero dello Sviluppo Economico ha stanziato le risorse necessarie per un progetto che si propone di riavvicinare banche e confidi su una piattaforma standardizzata per il fido e la garanzia elettronica. Non è detto che ciò basti, ma è un passo importante nella direzione giusta.
Un aumento del ricorso agli strumenti finanziari nel quadro della Politica di Coesione post 2020 potrebbe generare delle criticità per gli intermediari finanziari?
Francamente le criticità per gli intermediari già ci sono e continueranno ad esserci in questo ciclo di programmazione, per ragioni speculari alle difficoltà che incontra la P.A. Il punto è questo: gli strumenti finanziari richiedono una partnership forte tra P.A. e intermediari. Ma si tratta di soggetti che pensano, agiscono e comunicano in modo molto diverso. Diversi sono i fini, il modus operandi e il lessico. Interesse pubblico contro redditività; diritto amministrativo e comunitario contro modelli di rating e capital relief.
Va detto che se nella programmazione precedente sugli strumenti finanziari c’erano poche regole e molte ambiguità, ora ci sono molte più regole di portata generale (applicabili a tutti gli strumenti finanziari) che hanno ridotto l’ambiguità dal lato della P.A. ma che sono ancora poco conosciute dalla gran parte degli intermediari finanziari, i quali hanno un approccio bando per bando senza una base solida di conoscenza sui (nuovi) principi fondamentali della materia.
Queste carenze possono comportare per gli intermediari finanziari errori di valutazione, ad esempio sul carico di attività da svolgere e quindi sulla relazione costi/ricavi. Questo è vero in media. C’è una mezza dozzina di banche con una forte tradizione nell’agevolato, che investono costantemente sulle proprie risorse umane e, proprio per questo, sono i big player degli strumenti finanziari.
Come si potrebbero strutturare al meglio gli strumenti finanziari nella programmazione dei fondi strutturali e di investimento europei post 2020?
Anzitutto con miglioramenti incrementali, possibili se si sviluppa una cultura della valutazione basata sui fatti, carente in molti settori della nostra società. Detto questo le politiche di coesione sono tra le più trasparenti, quelle che rendono pubbliche tutte le informazioni chiave. Citerei in proposito sia il portale www.opencoesione.gov.it, sia il primo Rapporto sugli strumenti finanziari cofinanziati dai Fondi strutturali e di investimento europei.
> Fondi europei – gli strumenti finanziari nella Politica di Coesione
Ciò detto, a mio avviso ci sono tre grandi aree dove vi sono spazi di miglioramento significativi:
- convergenza sulla “meccanica” degli interventi, di cui abbiamo detto sopra. Più si riesce a fare a tal proposito entro il 2020, meglio sarà per l’efficienza e l’efficacia degli strumenti finanziari del futuro;
- riduzione del “gap regolamentare” che avvantaggia le “sovvenzioni rimborsabili” (per le quali non occorre la valutazione ex ante, né l’accountability previste, rispettivamente, dagli articoli 37 e 46 del Regolamento 1303/2013) rispetto agli strumenti finanziari cui molto assomigliano, salvo che non coinvolgono gli intermediari finanziari e, talvolta, addirittura corrono il rischio di spiazzarli;
- affinamento dei sistemi di verifica della coerenza tra obiettivi di policy e scelte allocative degli intermediari finanziari, ovviamente laddove questi operino avvalendosi anche di risorse pubbliche.
> Quadro finanziario pluriennale – gli scenari per il bilancio UE post 2020
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