Private equity: quali prospettive per il futuro?
Il settore del private equity ha retto il colpo della crisi finanziaria globale meglio di quanto ci si aspettasse e, con la maggiore fiducia negli investimenti, le grandi compagnie sono ormai tornate al business as usual, ricominciando a distribuire dividendi. Non è chiaro, tuttavia, quanto le prospettive per il futuro siano promettenti e se questo recupero resisterà alla forte concorrenza, ma anche alle richieste avanzate da autorità di regolamentazione ed investitori.
Il quadro delle “prospettive incerte” del settore è stato delineato in un articolo pubblicato il 17 aprile scorso sul Financial Times; secondo l'autore, Henny Senders, il private equity, apparentemente al culmine della sua potenza, deve ancora fare ai conti con una serie di problemi.
Le società di private equity rappresentano ormai una grande forza sul mercato dei capitali, in competizione con le imprese industriali nella ricerca di fusioni attraenti e candidati per l'acquisizione; inoltre, in virtù della propria potenziale offerta, sono in grado di supportare il mercato azionario e la loro crescita stimola l'imitazione di questo modello da parte di altre imprese.
Un modello di grande interesse, perché rende possibile acquisire grandi società quotate grazie al denaro di banche e investitori del debito, più che con fondi propri, per gli elevati tassi di rendimento, ma anche per il bisogno di profitto dei fondi pensione che vi investono e che hanno contribuito alla rapidissima espansione del settore.
Oggi, però, le valutazioni sono scese notevolmente e, anche se finora nessuna delle peggiori paure delle imprese si è materializzata, un'ondata di sfide da parte di regolatori, investitori e concorrenti sta costringendo le più grandi società di leverage buy-out a diversificarsi in nuovi business e ad entrare in nuovi mercati, assumendo di conseguenza maggiori rischi.
In primo luogo, con la quotazione, le imprese del settore stanno cambiando il loro modello: i mercati pubblici vogliono che le imprese massimizzino il valore degli assets in gestione, mentre agli investitori tradizionali nei fondi di buy-out interessano molto di più le prestazioni di tali attività e secondo alcuni le società di private equity non dovrebbero cercare quotazioni pubbliche. Secondo Georges Sudarskis, ex responsabile degli investimenti di private equity presso la Abu Dhabi Investment Authority, il più grande fondo sovrano del mondo, osserva a questo proposito: "Improvvisamente (le società di private equity) hanno due padroni: il mercato pubblico e i loro partner limitati".
Una seconda questione riguarda la strada intrapresa da molte grandi imprese di buy-out, nel tentativo di sfuggire al panorama competitivo e alla caduta dei profitti nei mercati sviluppati, e consiste nella scelta di investire di più al di fuori degli Stati Uniti. Tuttavia, poiché sono in tanti ad entrare negli stessi paesi, l'effetto è quello di spostare l'attività in area maggiormente a rischio, senza sfuggire alla forte concorrenza interna e, come nel caso della Cina, a cercare di penetrare in Stati le cui regole tendono a favorire gli operatori locali.
L'ingresso in mercati più pericolosi, ad esempio quello russo, è oggetto di discussione tra le grandi società di private equity. In ogni caso la Russia sta già progettando di mettere da parte 10 miliardi di dollari per co-investire a fianco di imprese di buy-out, tra le quali Apollo, Blackstone e Carlyle, in società russe, da rivendere poi ad acquirenti stranieri.
Un'occasione allettante, che alcuni dirigenti suggeriscono però di cogliere perseguendo un maggiore equilibrio tra aumento dei profitti e attenzione ai rischi. E intanto Carlyle, una delle aziende più ardite, ha appena annunciato un fondo per l'Africa subsahariana, non necessariamente di successo, ma sicuramente al riparo dalla concorrenza.
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